GIUSY

«Giusy, io e papà ci vogliamo bene» mi ha detto la mamma. Dopo un attimo di esitazione ha aggiunto «… a modo nostro.»

La sua faccia si è come accartocciata mentre lo diceva e ha chiuso gli occhi forte forte. Ha tirato un sospirone che pareva non dover finire mai. Una lacrima le ha rigato il viso, si è fermata un attimo sul mento e poi è caduta giù sulla sua mano.

«Questa allergia… » si è giustificata con voce tremante. 

Con tenerezza le ho tirato indietro la ciocca di capelli che le nascondeva il resto del viso e lei ha sussultato. Sulla tempia aveva un bernoccolo enorme e rosso.

«Mi è caduta addosso una pentola» si è giustificata prima che io potessi chiederle cosa fosse successo.

Strano, ho pensato, le pentole e le padelle sono riposte negli scaffali in basso, però ho taciuto. Alla mia mamma succedono spesso incidenti e disavventure. 

Ricordo quel giorno che ha sbattuto allo sportello dell’armadio della sua camera. Ho sentito del trambusto, poi delle urla e poi più niente. Quando mamma è uscita per tranquillizzarmi, aveva un occhio talmente gonfio che non si apriva. Papà l’ha dovuta portare al Pronto Soccorso. Ci guardavano tutti e parlottavano piano. Una dottoressa mi ha portato in una stanzetta e mi ha fatto tante domande.

Io le ho detto che mamma è un po’ distratta. Le capita ogni tanto di cadere o sbattere contro qualche mobile e di urtare o inciampare nelle cose. Inoltre è maldestra. Gli oggetti le sfuggono di mano, si scotta mentre cucina e, un paio di volte, si è anche bruciata con le sigarette.

La dottoressa mi ha regalato un lecca lecca color arcobaleno. Aveva gli occhi lucidi, non so perché. Forse le dispiaceva per la mia mamma. Dopo l’ho sentita che parlava con i miei. Papà era molto arrabbiato. Urlava e bestemmiava come non lo avevo mai sentito fare. Ha trascinato fuori la mamma  tenendola stretta per un braccio, mi ha afferrata  e siamo usciti. Facevo fatica a seguirlo per quanto correva. 

In macchina nessuno ha parlato e, una volta a casa, mio padre mi ha sgridata. «Giusy non devi parlare dei fatti nostri con gli estranei» mi ha detto. Non ho osato replicare nemmeno quando, strattonandomi per un braccio, ha aggiunto: «Sei una piccola bugiarda che ha inventato tutte quelle brutte cose che hai raccontato alla dottoressa. Devi dirlo se qualcuno te lo chiede.» 

L’ho guardato sbigottita. Chi era l’estraneo che mi parlava in quel modo?

Mamma è intervenuta. «Non ti preoccupare. Giusy lo dirà…vero Giusy che lo dirai? Dirai che scherzavi, che non è vero niente… che hai immaginato ogni cosa.» Lo diceva con un tono così supplichevole che ho fatto sì con la testa. Ma non mi è piaciuto dover raccontare di aver mentito. 

L’occhio nero è diventato violaceo, poi giallognolo. La mamma lo nascondeva dietro a grossi occhialoni scuri che toglieva solo quando eravamo in casa. Infine tutto è tornato normale, anche la vita in casa nostra.  

E oggi questo bernoccolo. Sono passati poco più di tre mesi da quando siamo stati in ospedale. Tre mesi sereni, senza urla dietro le porte chiuse, senza cerotti a coprire gli incidenti, senza lacrime e sospironi. Pensavo durasse per sempre. L’ho sperato e ci ho quasi creduto. 

«Mamma… » sussurro. «Mamma, andiamo via.»

Ma lei fa no con la testa. Si torce le mani, il viso in fiamme, gli occhi che vagano per la stanza.

«Non è cattivo, è solo un po’ nervoso. Sai, problemi sul lavoro, grattacapi a non finire, pensieri…»

La guardo e mi duole il cuore mentre tenta di giustificare mio padre. Ma io ancora avverto la stretta della sua mano sul mio braccio e lo sguardo feroce che ha rivolto a me e mamma quando lei ha osato parlare.

«Mamma… »insisto. «Ho paura. Andiamo via.»

Mi ha stretta in un abbraccio e ha cercato di rassicurarmi. 

«Shh, tranquilla, non succederà niente. Papà mi vuole bene… ci vuole bene. Non ci farà del male.» 

Ma io non me la bevo. Anche lei ha paura.  

Ed una mattina di primavera, mentre il mondo fuori era un’esplosione di colori e nuova vita, la mia mamma è volata in cielo, colpita a morte con venti coltellate all’addome. Mi hanno trovata rannicchiata dentro ad un armadio, coperta del suo sangue. Mi dondolavo avanti e indietro, gli occhi dilatati per il terrore. Quando finalmente sono riuscita a parlare ho raccontato delle grida che mi hanno attirata in cucina, della rabbia di mio padre e degli schiaffi e dei pugni che sono volati. Ho afferrato mio padre, tirandolo per la camicia per farlo fermare, ma lui mi ha strattonata e mi ha fatto   sbattere contro il muro. Allora la mia mamma è diventata una tigre: lo ha picchiato, morso, graffiato, lo ha tempestato di calci e pugni. 

«Non la devi toccare» urlava. «Non la devi toccare, hai capito?»

Lui ha afferrato un coltello e glielo ha piantato nella pancia. E poi ancora, e ancora e ancora, come fosse in trance. 

Dicono che gli orchi si trovano nelle favole. Io ce l’avevo in casa mia.